Il maestro di calcio: Stefano Bonaccorso

Il maestro di calcio: Stefano Bonaccorso

Dopo Andrea Biffi e Giuliano Rusca, il maestro di calcio con cui ci siamo confrontati in questo mese è l’attuale coordinatore dell’attività di base dell’Atalanta, che ci ha presentato il suo modus operandi e ha analizzato il sistema calcistico giovanile italiano.

Un uomo di campo, come lui stesso si definisce, che da 10 anni svolge il ruolo di coordinatore dell’attività di base della società bergamasca, dopo aver fatto tutta la trafila nel club atalantino, iniziando da giovanissimo nella Forza e Costanza, squadra dilettantistica che ricorda con affetto ed emozione. Stefano Bonaccorso ha parlato delle caratteristiche che deve avere un buon settore di base e di quelle indispensabili per un allenatore di giovani.

Come è avvenuto il passaggio all’Atalanta?
«Sono entrato nella “Dea” nel 1991 grazie a Raffaello Bonifacio, un’istituzione a Bergamo. Ho incominciato dai Pulcini: di quel gruppo facevano parte Giampaolo Bellini, Alex Pinardi e Ivan Pellizzoli. Poi ho proseguito nelle altre categorie, Esordienti, Giovanissimi, nei quali sono rimasto 10 anni, e Allievi, per 4 stagioni. Quando, nel 2007, il “maestro” ha deciso, dopo tanti anni, di diminuire i suoi incarichi, mi è stato offerto di prendere il suo posto come coordinatore.»

Un’esperienza quasi trentennale la tua: in che modo è cambiato il calcio in questi anni?
«Voglio partire trattando il rapporto che la società ha con le famiglie: prima era diretto, mentre ora non più. Inoltre, i genitori accompagnavano i bambini o i ragazzi al campo e stop. Adesso sono molto più presenti. E c’è la figura del procuratore… Sono anche mutati gli aspetti sociali e spesso le famiglie portano al campo problematiche extra-calcistiche, che sono proprie anche del bambino. Quindi è indispensabile un’attenzione particolare da parte nostra per quanto concerne questi aspetti. È fondamentale interagire con le famiglie per cercare di risolvere eventuali criticità, nei limiti del possibile.»

Poi…
«Fino a pochi anni fa non si parlava di tecnologia applicata al calcio. Oggi è all’ordine del giorno a qualsiasi livello: grazie a questa, si riesce a dare maggior attenzione alle componenti della prestazione. Di contro, restano immutati quelli che sono gli aspetti cruciali da tener presenti nell’attività di base, vale a dire quelli tecnico-coordinativi ed educativi.»

Quali sono stati i cambiamenti metodologici e in che direzione si sta andando?
«Le competenze che dovrebbero avere gli allenatori sono le stesse, e in particolar modo tecniche, organizzative, metodologiche e socio-relazionali. Quest’ultime assumono sempre maggior rilievo. Inoltre, per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, va evidenziato come in Italia si gioca troppo poco e questo è uno dei problemi principali. Quindi, un bravo allenatore deve sapere ottimizzare al massimo i tempi. Un altro punto da considerare è la metodologia, intesa come capacità di raggiungere gli obiettivi, attraverso gli stili partecipativi. Questo è un tema sul quale si dibatte da anni dal punto di vista teorico, ma poi la difficoltà sta nel “passare al campo”. Deve essere vista come una nuova frontiera da esplorare. Infine, c’è un’altra componente da valutare…»

Prego…
«Per imparare a giocare bisogna… giocare. Quest’idea è stata avvalorata anche da diversi calciatori con cui mi sono potuto confrontare: penso a Camoranesi e Rivera. Loro stessi hanno affermato che guardando nel proprio passato vedono il match come momento maggiormente allenante. Per questo, durante le sedute settimanali, è necessario lavorare sui princìpi di gioco attraverso modalità che ricreino una situazione di gara, come small-sided games o situazioni di gioco semplice Bisogna tenere a mente, però, che per farlo ci vuole tanta esperienza. Un allenatore deve essere in possesso di conoscenze importanti per lavorare in questa direzione, che è quella che come Atalanta stiamo seguendo.»

Quali sono le linee guida che condividete con gli allenatori e in che modo ti relazioni con loro?
«Io porto la mia esperienza: mi considero un uomo di campo. Ho la fortuna di collaborare anche con la Federazione, oltre al retaggio accademico (Stefano insegna da diversi anni all’Università Statale di Milano, nda). Cerco di fondere le conoscenze da campo con quelle della formazione. Con gli allenatori facciamo diverse riunioni settimanali, alcune per valutare la crescita dei ragazzi, altre per pianificare gli obiettivi. Ma il confronto è costante e continuo, quotidiano, difatti i tecnici lavorano con noi a tempo pieno. Io stesso sono presente sul campo, ogni pomeriggio mi reco a osservare le varie situazioni.»

Parlando proprio di campo, quali aspetti vengono sviluppati maggiormente?
«Sicuramente le competenze tecnico-tattiche. Tenendo come punto di riferimento i princìpi di gioco, si lavora su tutte quelle abilità calcistiche che servono per raggiungerli al meglio. Per semplificare, se il principio è giocare palla a terra, significa che il pallone lo devo tenere a contatto col terreno di gioco, per cui lo strumento che devo affinare sarà lo stop, la cui buona esecuzione è per noi un criterio di selezione. Altre finalità sono smarcamento e trasmissione, per capirci.»

In che modo vengono visionati i giovani calciatori e quali sono i criteri selettivi?
«Abbiamo uno scouting che negli ultimi anni è cresciuto molto. Come Atalanta stiamo investendo in modo significativo sulla possibilità di visionare i giocatori in ogni ambito: oratori, tra i dilettanti e nei professionisti. Lo sviluppo di quest’area è merito del responsabile del settore giovanile, Maurizio Costanzi, che dal suo arrivo ha spinto molto su questo punto. I criteri di selezione sono l’abilità tecnica, per la quale è fondamentale il primo controllo, e la struttura fisica. Questa concerne sì gli elementi antropometrici, che per alcuni ruoli è determinante, come portiere e attaccante, ma riguarda anche la qualità delle fibre muscolari. Ad esempio…»

Ad esempio…
«Se pensiamo al Papu Gomez, ha qualità muscolari importanti: forza, potenza, sa accelerare e frenare come pochi altri. Anche se piccolo di statura. Un’altra qualità che viene ricercata è l’intelligenza tattica, ovvero la capacità di leggere la partita nelle varie situazioni. Anche la personalità è fondamentale. Parliamo quindi di senso agonistico, che nelle nuove generazioni viene sempre meno. Selezionare bambini agonisticamente forti non è facile, per cui è una qualità che va allenata come le altre. La determinazione di portare in campo sempre il meglio delle tue capacità permette di diminuire l’incostanza di rendimento tipica dei più piccoli. Se vogliamo formare giocatori che faranno i professionisti, dunque, è essenziale agire in tale direzione.»

Possiamo affermare che si è un po’ persa la distinzione tra chi ha come obiettivo quello di diventare professionista e chi pratica il calcio come semplice sport?
«Questo è sicuramente un equivoco da cui bisogna uscire. Lo sport si può praticare con differenti finalità: per ragioni salutistiche, con un intento ricreativo o con scopi educativi. Poi, c’è il livello agonistico. Questa è la strada che le varie federazioni indicano per creare sportivi che possano partecipare in futuro alle Olimpiadi o a un Mondiale. Oggi c’è la tendenza per la quale tutti vogliono fare tutto. È importante, allora, fare delle distinzioni. Ci devono essere “agenzie” che si perseguono le varie finalità. Per ogni aspetto sono necessari dei professionisti del settore e quindi è necessaria la collaborazione tra le varie istituzioni: oratori, scuole, famiglie e società sportive.»

Il ruolo dell’allenatore è fondamentale comunque.
«È indispensabile formarlo in modo che abbia competenze che gli permettano di migliorare gli aspetti cognitivi, quelli socio-relazionali e la componente emotivo-affettiva, da sviluppare in diversi momenti della stagione. Tutto ciò ricordando l’obiettivo finale, che per noi è prendere giovani calciatori, formarli e portarli in prima squadra.»

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